Le braccia tese



Il mio piccolino (2) aveva un ciuffetto argentato sulla testa, tenuto su con una molletta, una maglietta bianca sporca di sugo un po' corta dalla quale spuntava la sua panzetta da camionista ed un paio di alucce bianche e argento sulle spalle che dio solo sa come abbiano fatto a mettergliele e a non fargliele strappare dopo mezzo secondo.
Conciati come lui, tutti gli altri bimbi del nido, con la faccia attonita da recita, stupiti dal giorno di festa, stupiti da tutta quella gente e forse anche un po' stupiti di essere stati conciati così. Mio figlio - soprattutto - sarebbe stato più adatto vestito da boscaiolo, oppure da uomo delle caverne, oppure da spazzacamino. Da angioletto, francamente, non ha le fisique du ròle. Ma il colpo d'occhio è bello, i bimbi felici, le maestre bravissime.

Da questa parte mille genitori urlanti, salutanti, sghignazzanti, preoccupanti, raccomandanti, commentanti, sopportanti. Amore sono qui, tesoro sono arrivato, stellina eccomi, papà arriva fra poco, la mamma non viene, guarda là che c'è il nonno, non guardare qui, ascolta la maestra, non ti fare riconoscere obbedisci, togli le dita dal naso, ma non sarà leggera solo con la maglietta, stai più in là che c'è corrente, vai al centro che faccio il filmino, sorridi un po', ci stai fermo un attimo.
Genitori allegri, genitori scazzati, genitori un po' e un po', genitori ironici per giustificare il troppo scazzo e la poca allegria, genitori trafelati arrivati di corsa come per timbrare il cartellino in tempo, genitori al telefono con l'altro genitore: ma dove sei!? ti avevo detto le 16 non le 17!.

In mezzo a questo circo, io. Non posso pensare altro che a lui, 38 anni, lo conoscevo poco, conoscevo meglio la moglie ed i suoi 4 bimbi. Li avevo visti giocare nel giardino sotto casa. Avevo visto i loro occhi vivaci, felici, li avevo visti correre dietro ad un pallone, li avevo visti giocare col loro papà. avevo visto abbastanza per capire l'intesa, l'amore, la confidenza, la capacità di giocare insieme. Era un bel papà, un bravo papà. E quella mattina ha portato i suoi figli a scuola e poi, puff è finito su una nuvoletta, a fare l'angioletto anche lui, senza avvisare, senza salutare.
In mezzo a questa festa, piena di gioia, di sorrisi, ma anche di fatica, di rincorse, di noia, di routine, penso solo a lui. Mi domando quanto oro darebbero quei quattro bimbi e quella moglie per vedere entrare alla recita quel bravo papà. Magari anche in ritardo, magari anche con lo scazzo, magari solo dopo una telefonata della mamma a ricordargli l'orario.
Mi domando se la vita, quando ti porta via su una nuvoletta, ti lascia lo strazio di tendere le mani invano verso i tuoi figli oppure se - come dicono - ti regala una serenità ed una forza che ti fa sorridere ai poveri dolori di chi resta a fare i conti con il dolore e l'assenza. Mi domando se sopra la stanza della recita di quei quattro cucciolini, una stanza come quella del nostro asilo, c'erano le braccia tese di un papà angioletto che, disperato, cercava l'ultimo abbraccio d'amore, oppure se c'era il suo caldo abbraccio di presenza, di conforto. Mi domando se le braccia tese dei suoi quattro angioletti riescono a toccare qualcosa, qualcuno, almeno oggi che è il giorno che c'eri ma non ci sei più.

Resto attonito in mezzo alla festa. vorrei fermare tutti e dir loro di non essere scazzati, annoiati, che è una fortuna, una gioia, un regalo che altri pagherebbero milioni, vorrei che tutti tendessero le mani, per sentire e farsi sentire.
Piango e mi sento sciocco, che piangere ad una recita fa sembrare sciocchi, ma vedere mio figlio che si volta a cercarmi e mi sorride mi fa pensare ai quattro bimbi che vorrebbero potersi voltare e non lo potranno più fare. Allora piango. Sono lacrime da papà, non da amico, lo so. Ma oggi, che sei andato di corsa su una nuvoletta - caro Nicola - oggi che non riesco a capire se Dio mi sembra vicinissimo o lontanissimo, oggi hai insegnato a tutti i papà che ti conoscono e ti hanno conosciuto, a tendere le braccia verso i propri figli e a ripondere con uno slancio alle loro braccia tese.

Ora l'ho capito.



Questo week end vi ho detestati. Tutti.

Ho detestato te, amore mio ribelle, che quando hai il diavoletto dentro non ti si può neppure catturare lo sguardo, che mi dici "si" ma chissà cosa pensi, chissà cosa hai sentito, chissà se mi hai sentito. Che mi implori di aiutarti a fare i compiti, poi quando ti chideo un bricciolo di attenzione, un attimo di concentrazione, un minuto di applicazione per imparare a capire il concetto e non appicicarti le regole a memoria, ridi, ridacchi, tiri a indovinare, vai per la tua strada. In quel momento hai le chiavi dei miei nervi, hai la leva del mio equilibrio. La sfiori e sono giù nel baratro, e la voce si alza, le mani fremono, la voglia di lasciarti li, solo nel mezzo del guado è irresistibile, tu solo con la maestra davanti ai tuoi quaderni vuoti, senza compiti, senza lavoro, senza aiuto, senza crescita, senza il frutto delle nostre fatiche, dei mille trucchetti per farti ragionare e capire, senza il tuo ordine a corrente alternata, i tuoi nove scritti malissimo, la tua grafia che può essere orrenda e stupenda. Ho detestato la tua dipendenza per i compiti che a 8 anni mi sembra eccessiva e la tua indipendenza nel farti scivolare sopra la mia sgridata, la più terribile che ti ho mai fatto, la più violenta, la più rabbiosa. Mi sono spaventato dei tuoi occhi mentre ti sgridavo e mi sono irritato e scompisciato per la sfacciataggine con la quale dopo pochi minuti dalla sgridata sei tornato quello di prima.

Ho detestato anche te, piccolo essere grassottello, che ogni giorno mi sembri mostruosamente fuori misura per i tuoi 2 anni. Troppi kg per aver 2 anni, troppo energico per avere 2 anni, troppo grintoso per avere 2 anni, troppo indietro nel parlare per avere 2 anni, troppo scaltro per avere 2 anni, troppo simpatico per avere 2 anni, troppo prepotente per avere 2 anni. Ho detestato che tu non abbia dormito in auto durante il viaggio lamentandoti delle cinture e cercando di scendere dal seggiollino per mille volte, ho detestato che abbia escogitato ogni gioco che metteva a rischio gli oggetti più fragili della casa, che tu non soportassi di stare a casa quando non si poteva far diverso, che non fossi contento quando poi siamo usciti, che c'era qualcosa di incomprensibile che ti faceva continuare a rugnare. A mangiare mai fermo, sul passeggino mai calmo, a giocare solo dove c'era da sporcarsi o c'era pericolo. E poi stasera, per andare a nanna, che nessuno degli stratagemmi andava bene, il bibe si ma poi ancora agitato, le coccole si ma poi volevi scendere, le fotine sul cell e i fimlini sul cell di papà che ti fanno sempre ridere si, ma poi "ancoia, ancoia" e pianti perchè erano finiti.

Ho detestato pure te, piccolo ometto dallo sguardo serio ed il cuore tenero. Quando hai pianto mentre sgridavo tuo fratello così forte che non mi avevi mai visto così arrabiato, ma poi non hai avuto nemmeno un guizzo, un fremito, un gesto di istinto che ti portasse da lui a consolarlo, che la mamma non c'era e certo non potevo farlo io. Mai che ti veda fare un gesto d'amore per lui, eppure so che lo ami ma farlo vedere sembra un disonore. E poi questa tua indipendenza, che ti ha fatto rimanere qui con i nonni, per l'ennesima volta, per poter giocare a pallone con la tua squadra e nemmeno uno sguardo che mi faccia capire che ti siamo mancati. Sei troppo grande, sei già così grande, hai solo 12 anni e già ti sento sfuggire via dalle mei coccole, dalla tua dipendenza da me, da noi, hai già la tua vita, i tuoi segreti, i tuoi rifugi mentali, sentimentali. Avrei voluto sentirti più vicino quando siamo tornati, avrei voluto parlarti della sgridata dell'altro giorno, essere rincuorato di esser stato così brusco, pessimo. Avrei voluto essere rassicurato di non aver fatto troppi danni, avrei voluto parlarti e sentirti parlare per capire che cosa avevano visto i tuoi occhi, sentito le tue orecchie. Avrei voluto che rimanessi con noi il week end per guardarti e capirlo. Invece sei stato solo, col tuo calcio, coi tuoi nonni, coi tuoi pensieri, a riorganizzarti le idee e il cuore, da solo, da grande.

E poi ho detestato te, che mi fai fare questa vita di corsa, che mi hai regalato questa vita di corsa, con la quale ho costruito questa vita di corsa, che quando sono stanco mi sembra una sfacchinata orribile, quando sto correndo mi sembra una follia inutile, quando sono dentro il turbine mi sembra di essere un panno in una lavatrice. Detesto sentire che per essere felici bisogna correre, che per vivere bisogna solo e sempre muoversi, fare, inventare, mentre sarebbe così bello essere felici per quello che c'è, per come è, per come arriva. vorrei oziare, dormire, aspettare, guardare, camminare, lasciare che le idee vengano, che le giornate si inventino da sole, che scorrano rotolando distrattamente. Invece tutto è corsa, rincorsa, organizzare, prevedere, prevenire, preparare.

E poi, adesso, che sfinita dormi, col grassottello che finalmente  ha capitolato, con il diavoletto che ha trovato ancora mille stratagemmi per raccattare coccole, bicchieri d'acqua e goccine per il naso, e l'ometto che prima di addormentarsi mi ha finalmente detto che aspettava un po' di silenzio per raccontarmi i suoi 4 goals prima di dormire, ecco, ora ... non vi detesto più.
Ora ripenso alla nostra giornata e sorrido. Sorrido perchè se la vedessi in un filmino super8 muto, riderei a crepapelle dei nervosismi, degli urli, delle sfuriate, dei capricci, delle stancate. Se penso al filmino in super8 della giornata di oggi, so che quel filmino è il filmino della vita, della felicità. Il filmino di una giornata di chi ha tutto e basta dargli un momento di respiro per guardarsi indietro perchè lo capisca.  Io, ora, l'ho capito.

E' stato un week-end favoloso, amori miei.

Una goccia per papà



Ci sono notti che anche i papà hanno nostalgia, ma valla a speigare la malinconia ad un cucciolotto di otto anni che ti guarda come si guarda una roccia, oppure prova a giustificare una lacrimuccia ad un ragazzino di undici anni che ogni foglia che si muove vuole sapere il perchè ed il percome. Allora ben venga un cucciolotto di due anni, morbidissimo, assonnato, che vuole essere messo a letto ma vuole anche qualche parola, qualche vocina, qualche racconto, del quale godrà solo i rumori, le intonazioni, le faccette che il papà saprà inventarsi.
Stanotte amore mio ti racconto un'altra avventura dell'ape dei sogni. Lo sai l'ape dei sogni dove vola questa notte? Questa notte l'ape dei sogni vola altissimo, così in alto che arriva sulla nuvoletta del nonno Aldo.

zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz

Ciao nonno come si sta su questa nuvoletta morbida? Bene? che ridere che fai nonno, i tuoi capelli sono così bianchi che nemmeno si vedono in mezzo a questa nuvoletta soffice, i tuoi denti lunghi invece si, che tutti quei sigari che hai fumato e la pipa che rosicchiavi sempre, te li hanno ingialliti, spaccati, segnati. Ricordo ancora quel giorno che mangiando ne hai perso uno, dicevi che era stato l'osso della carne, ma stavi mangiando fegato, risero tutti, i nipotini, la nonna, la Rina che cucinava. Che bello che è quassù nonno. La nonna che ti amava e ti ama ancora, non ne può più di non vederti e sta laggiù ormai da cento anni e aspetta pazientemente di rivederti. Deve chiederti tante cose, raccontarti di questi 25 anni senza di te, nei quali è stata forte, simpatica, cazzuta e brontolona come non era stata mai. solo tu sapevi tenerla buona. Bastava un "taci Gina" e lei .... taceva. E poi deve dirti dei nipoti, che sono 6, quasi tutti maschietti.

Attento piccolo, l'ape si è rimessa a volare zzzzzzzzzzzz. Dove va quest'apina monella? Nooooo, sul nasone del nonno, accidenti Piti, si è posata proprio sulla gobbetta del nasone del nonno. Uhhhhh vediamo che succede.

Ehi nonno che bel nasone. E questo dove lo hai trovato? Sei l'unico in famiglia ad averlo, ma come. Tua figlia, la nonna Tetè, non ce l'ha, la zia Franci nemmeno, papà Fede nemmeno, Samu e Ale no. Matti Giova e Chiaretta neppure .... aspetta un po' ..... fammi guardare in quella culletta giù a Genova ..... zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz, non mi dire ....... non mi dire che la tua gobbetta te l'ha rubata quel cicciottello di Piti zzzzzzzzzzzzzzzzzzz si si, qui c'è una gobbettina bella e buona zzzzzzzzzzzzzzz huhuhuhuhuhuh ma senti qui zzzzzzzzzzzz si si. Chissà se questa gobbetta gliel'hai passata tu o la mamma Marci, che anche lei un po' ce l'ha.

Attenzione Piti, emergenza, l'ape vola ancora zzzzzzzzzzzzz e dove va? uhuhuhuhuhuh pericolo, si è appoggiata sulle mani del nonno.

Ehi nonno lo sai che mi ha raccontato papà Fede che quando lo portavi ai giardini di Nervi aspettava con trepidazione di salire sull'autobus con te, per vederti arrotolare il piccolo biglietto rosa ed infilarlo sotto la vera. Avevi le mani grandi e secche e lui le conosceva solo per quando gli davi la mano negli attraversamenti stringendo un po' più del dovuto, o per quando passava le ore a guardarti giocare a bocce a Limone, col tuo straccetto giallo in una mano e le bocce a quadrettini piccoli nell'altra. Per il resto non le conosceva perchè tu non sapevi dare le carezze. Non te le avevano mai date e non le sapevi dare. Non sapevi nemeno dare i baci, e neppure prenderli. Tiravi un po' il viso in avanti e gli battevi frettolosamente una mano sulla testa. Per fargli sapere che lo amavi usavi gli occhi. Occhi che ridevano al suo arrivo, che lo seguivano in ogni corsa dietro ad un pallone, o ad ogni curva delle garette di sci. Occhi che vedevano sempre cose grandiose, belle, stupende, meravigliose. Occhi orgogliosi e ciechi di nonno innamorato.

zzzzzzzzzzzzzzzzz attenzione attenzione ......... l'ape vola ancora ......... emergenzaaaaaaaa ..... emergenza ....... l'ape si è impigliata, nelle sopracciglia folte del nonno.

Ehi nonno fammi un po' vedere? Ma che cosa vedo? Una lacrima? Nooooooooooo nonno, che cosa c'è? Ah forse lo so. Me lo ha detto papà Fede che gli ultimi giorni che sei stato giù con lui, vi vedevate in quel giardino dell'ospedale. Lui faceva fatica a venire a trovarti, non perchè eri lontano, non perchè non avesse tempo, non perchè non fossi nei suoi pensieri, ma perchè sapeva già come sarebbe andata a finire e quel pensiero gli offuscava la mente, gli occupava i pensieri e non trovava le parole, non trovava un modo per riuscire a darti un po' di gioia. O forse aveva solo paura che tu capissi. O forse aveva paura e basta. Paura per te, paura di non averti più. Ogni volta che ti diceva "Nonno adesso devo andare", tu sorridevi e ribattevi frettolosamente la mano sulla sua testa, ma i tuoi occhi ti tradivano e diventavano lucidi.

zzzzzzzzzzzzzzzzzzz

Aspetta un po' nonno, facciamo così. Facciamo che adesso io volo vicino al tuo viso e rubo una tua lacrima e la porto in dono giù a papà Fede, così sorriderà per tutti i giorni felici che vi siete regalati e a tutti i sogni belli che vi siete lasciati per le notti di questi 25 anni.

zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz

Buonasera Papà Fede, ti ho portato una goccia da una nuvoletta bianca. 
.... adesso puoi sorridere.

zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz.

favola

questa storia cominciò un giorno - un martedì grasso - quando un ragazzino scoprì che da quel giorno - e non era uno scherzo di carnevale - non avrebbe più visto i suoi genitori darsi un bacio, dormire insieme, svegliarsi insieme, partire insieme, abbracciarsi.
passarono giorni, mesi, anni, di racconti ascoltati la sera sdraiato con papà sul suo letto vuoto per cercare di capire come mai fosse crollato il mondo, il loro mondo, il suo mondo e passarono giorni, mesi ed anni di racconti ascoltati di giorno, seduto con la mamma su un brutto divano per cercare di capire come mai fosse crollato il mondo, il loro mondo, il suo mondo.
ma cosa c'è al mondo di così forte - si chiedeva il ragazzino - che ha potuto far crollare ciò che lui vedeva come un infinito amore fatto di carezze, attenzioni, sorrisi e baci?
che cosa mancava al mondo - si intestardiva a domandarsi - per non permettere che un'unione profonda come quella della ruggine ed il ferro potesse continuare inesorabile?


passarono gli anni. i cuori smisero di lacrimare, le parole ricucirono, le mani si ritrovarono.
papà e mamma trovarono un altro posto per il loro cuore ed il ragazzo imparò a guardare baci, risvegli, partenze ed abbracci di un'altra vita.

anni dopo ancora, tornò su quel letto a parlare del suo mondo di uomo che crollava e pianse su quel divano per i sogni di marito e di uomo che gli sfuggivano di mano e quando sfinito si addormentò,  sognò. sognò un racconto - sussurrato a suoi orecchi come una frase d'amore - che parlava di mamma e papà che in segreto avevano continuato ad amarsi, vedersi, stringersi e baciarsi, sconfitti nel loro intento di voler estirpare la ruggine dal ferro.

l'uomo si rasserenò.
scrisse due biglietti identici.
ne lasciò uno sul letto e uno sul divano e continuò a vivere.

sui biglietti c'era scritto così:

Ruggine e ferro
eravate e siete
ed io
che vedevo e so
sorrido
perchè di ruggine e ferro
vivo

CIAO ....


Da quando ho i bimbi mi sono accorto che - con loro - non riesco più a salutare in maniera semplice. Non esiste più il "ciao" puro e semplice. Devo sempre aggiungere qualcosa, una postilla, un commento, un corollario, un consiglio, una raccomandazione, un vezzeggiativo, un imperativo, un'affettuosità.
"Ciao amore, ricordati di ..." "Ciao tesoro, mi raccomando ...", "Ciao cucciolo, divertiti, fai il bravo, copriti, non prendere freddo, dai un'occhiata a tuo fratello, occhio ad attraversare .....".
Quello che è peggio - poi - è che malgrado questa aggiuntina, il saluto mi sembra sempre insufficiente. Avrei voluto raccomandarmi un po' di più, verificare meglio se aveva capito, essere più rassicurante, più affettivo, meno mieloso, più fiducioso, ...... insomma più tutto e meno tutto.
Ogni saluto, ogni piccolo o grande distacco, mi fa sentire come quando si consegnava un compito in classe e - tant'è - una sbirciatina, una rilettura la si dava ancora, così per sicurezza, oppure come quando ancora oggi si scrive una mail importante ed il cursore è già sul pulsante invia, ma prima di cliccare si aspetta un attimo, si riguarda tutto per controllare che no ci siano errori.

Poi, consegnato il compito in classe, inviata la mail, salutato il figlio che va via da solo, cominciano i piccoli rosicchi d'ansia.
Saprà cavarsela da solo? saprà sopportare le sconfitte senza abbattersi, riconoscere i pericoli senza esserci già dentro, gioire delle fortune senza essere arrogante, difendersi dalle prepotenze senza esserne vinto?
Saprà già vivere questo cucciolo di uomo che guardo attraversare la strada sulle strisce davanti alla scuola, come se guardarlo lo potesse proteggere per l'ultimo minuto prima che incontri la vita? Avrà già capito abbastanza dai nostri insegnamenti per potersi destreggiare tra le fila di tutti questi personaggi di cui la sua vita si sta popolando? Sarà già capace di aggiungere insegnamenti nuovi a quelli che tenacemente abbiamo cercato di dargli come patrimonio di esperienza? Sarò capace - questa sera - a spiegargli il significato di tutte le cose nuove che gli saranno capitate, sarò capace di valorizzare quelle giuste e allontanare dalla sua testa quelle sbagliate? Sarò capace di riconoscerle, quelle giuste e quelle sbagliate?

"Ciao amore, buonagiornata, ci vediamo stasera". (ecco vedete ...)

Bernardo dice (1)

(...) La tua ferma volontà di mettere i tuoi passi laddove gli altri non riescono nemmeno a mettere il pensiero, fa di te - amico mio - l'uomo che sogna. (...)

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Sport violento o violenza nello sport?


Oggi sugli spalti del secondo allenamento di Rugby di mio figlio (8) mi chiedevo: "Cosa vuol dire uno sport violento?.

Nessuno vuole uno sport violento per il proprio figlio. Si può temere che si faccia male, oppure si può temere che qualcuno gli faccia male, oppure che veda, impari ed interiorizzi atteggiamenti violenti o, ancora, che qualcuno sia violento con lui, non soltanto fisicamente.

Allora, nell'ozio degli spalti, mi sono venute in mente tre immagini:
la prima quella vista praticamente l'istante precedente quando un bimbo, ben piazzato, ha atterrato mio figlio catapultandosi con la sua spalla fra le sue gambe facendolo cadere rovinosamente (ma con la palla ovale stretta fra le braccia);
la seconda quella di domenica scorsa quando ho assistito ad una partita di bimbi del 2003 e ho dovuto subire il supplizio di un mister invasato che ha ragliato per tutta la partita, vomitando urli, insulti, lamentele, critiche ai bambini, critiche all'arbitro e altre bassezze, fino a che - per fortuna - la sua squadra ha vinto. Dopodiché ha salutato tutti cordialmente a fine partita, con un sorriso di scherno come dire: "sapete ... era la partita, ma ora che abbiamo vinto ... mi è passata";
la terza quella di un paio di settimane fa quando il papà di un compagno del mio grande (11) ha blandamente, velatamente, insistentemente, educatamente- ma definitivamente - convinto suo figlio a giocare nella squadretta quotata dove era iscritto da due anni malgrado la richiesta del piccolo di andarsene visto che il nuovo mister e l'ambiente non gli piacevano più.


Finita la carrellata, il primo pensiero è stato che la violenza molto spesso non è nel gesto atletico, anche se tremendamente di impatto. Penso infatti di poter dire che in molti contrasti del calcio, in molti contatti del rugby, addirittura nei colpi della boxe (l'elenco di esempi potrebbe essere infinito) non c'è violenza. Intendo dire che l'idea che sta dietro a quei gesti non ha finalità violente o, cosa ancor più importante, non sono gesti che l'atleta fa per sfogare un suo istinto violento (quando succede il gioco si ferma e c'è la sanzione).

Penso invece che sia più facile trovare la violenza nella cultura che uno sport propone e propugna. Se in uno sport il dio è la vittoria con qualsiasi mezzo, allora ci saranno sempre mister che abbaiano in panchina, genitori che si azzuffano sugli spalti e bambini stressati che piangono quando perdono e non si divertono.
Dietro agli urli di un mister invasato o nelle parole striscianti di un padre manipolatore c'è - sotteso e palpabile - un messaggio violento.
Nel mister che abbaia, violenza nei confronti dell'amor proprio dei bambini che spesso per compiacerlo, piacergli ed accontentarlo vanno alla ricerca dei peggiori istinti che riescono a trovare dentro loro stessi o attingendo ai peggiori esempi reperiti nell'ampio mercato televisivo e sportivo. Ci vuole poco perchè si insinui in un ragazzino il concetto per cui: "Se mi butto in area e mi danno un rigore magari vinciamo, se do una calcione al più bravo degli altri magari lo intimorisco e gioca peggio, se meno gli avversari la prossima partita l'allenatore mi fa giocare perchè sono un duro".
Nel padre strisciante, la violenza sta nel non voler dare ascolto a precise e argomentate richieste di un figlio il quale per compiacerlo, piacergli ed accontentarlo mette in cantina le sue priorità e sensibilità, costretto a vivere la vita che quel papà ha ipotizzato per lui senza verificare l'esattezza della scelta. Ecco allora affiorare nel bimbo pensieri come:"Se lascio questa squadra ti deludo, se resto in questo club non ti arrabbi che so che ci tieni tanto, forse quello che desidero io è sbagliato".

Quindi mi sembra di poter concludere che - forse - non è corretto di parlare di sport violenti, ma di violenza nello sport  e - guarda caso - la violenza è sempre accompagnata da ignoranza e impreparazione.

Purtroppo sulle panchine del calcio giovanile spesso permettiamo che siedano persone che non hanno la minima preparazione e la minima cultura pedagogica.
Malgrado questo, anche quelle scuole calcio hanno la fila di genitori (miopi e impreparati anche loro) che vogliono iscrivere i loro bambini.

Bene, finiti questi bei pensieri, adesso devo trovare una bella spiegazione plausibile da raccontare a mia moglie, visto che mio figlio ha finito l'allenamento con un bel livido sulla coscia destra. Però è felice.
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Per il Rugby ci vuole il fisico


Coronando il sogno della mia vita di genitore di tre maschi (11,8,2) l'altro giorno ho varcato la porta della Decathlon e ho pronunciato la seguente frase: "Scusi, la roba da rugby per bambini dov'è?".
Io non so quante volte ero passato davanti a quegli scaffali provando un profondo senso di invidia. Invidia in tutti i sensi: intanto perchè la roba da rugby è infinitamente più bella di quella da calcio, poi perchè vedendo certe divise elasticizzate e rinforzate ho sempre pensato che per potersele mettere senza sembrare dei camionisti a fine carriera, bisognasse avere un fisico bestiale, e i rugbysti hanno un fisico bestiale, ma soprattutto perchè il rugby è sempre stato il mio sogno in termini di educazione sportiva, di valori trasmessi ai ragazzi, di eccellenza in tutta la filosofia che l'intero movimento propone e sostiene.
Ora che mio figlio Alessandro (8), dopo una semplice lezione di prova, ha sentenziato che vuole iscriversi al CUS Genova Rugby, non me la voglio perdere l'occasione di entrare in questo mondo e quindi tutti i mezzucci da padre rinforzante sono scattati.
"Amore, non ti servirà mica un caschetto e un paradenti per la prossima lezione? Facciamo mica un salto da DECATHLONNNNNNNNNNNNNNNNNNNN?" (parola magica da enfatizzare sempre).
"Si papiiiiiiiiiiiii, e mi servono anche le scarpe, le calze e anche una maglietta".
"No, calma, le scarpe sono quelle da calcio e la roba per ora va bene quella che hai, comunque andiamo".

L'inserviente è gentile, anzi gentilissimo e io - ormai intrippato - penso già che sia merito del rugby, che il rugbysta è educato quindi ben voluto, il calciatore invece è maleducato quindi gli avrebbero risposto "guardi un po' là, si scelga la roba da solo".
Lui invece ci accompagna, poi prende un caschetto della misura giusta, lo spacchetta, lo prova ad Ale, il quale - come se fosse stato toccato dalla corona magica - comincia a dimenarsi facendo smorfie da mischia e simulando la carica.
"Per i paradenti invece abbiamo questi, si mettono in acqua calda e poi si mordono, lo vuole rosso o nero?"
Io faccio in tempo a girarmi per porre la domanda a mio figlio, quand'ecco che un autotreno da 440 qli, o forse una ruspa, ma no ... forse il Freccia Rossa lanciato a tutta velocità mi ha travolto colpendomi fortissimo alla bocca dello stomaco. Dell'urto ricordo solo l'immagine del caschetto calzato dal solerte inserviente a quel cinghiale neozelandese di mio figlio, che mi veniva incontro all'altezza della pancia. Ricordo anche di aver implorato invano ai miei addominali di contrarsi e di aver avuto la risposta che si ha quando si richiama una ex fidanzata dopo un anno e mezzo che non ci si fa vivi:  no secco.

Per il colpo ricevuto sono sbiancato e - forse per compensazione o forse perchè pensavo agli All Blacks - con un filo di voce ho detto all'inserviente. "Me lo dia neroooooooooooo".

Ecco, io sono felicissimo che mio figlio si stia innamorando del Rugby, ma ho la netta sensazione di non avere il fisico.

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Il ristorante del velo


A volte penso che fare il genitore sia come fare il cuoco.
Il piatto che porti in tavola deve essere perfetto, gradevole alla vista, azzeccato nel gusto, bilanciato negli accostamenti, giusto di sale. E poi il ristorante deve essere in ordine, accogliente, con una bella atmosfera, una bella luce, pulito, comodo e non troppo caro. Tutti sanno, soprattutto il cuoco, che malgrado le mille attenzioni, è sempre meglio che il cliente non varchi la soglia della cucina. Non perchè si corra il rischio di vedere chissà chè. Non è che nella sua cucina ci sono i topi o c'è una sporcizia tale da fare inorridire un eventuale visitarore! E' piuttosto che, tutto quel rigore e quell'ordine - che un piatto ben servito trasmette - non proviene necessariamente da una cucina perfetta, sterilizzata, impeccabile e linda. Vuoi che non ci sia roba a mezzo? vuoi che non cada qualcosa? vuoi che non scappi un dito nel naso, una goccia di sudore, un mestolo che tocca prima qui e poi là? o qualche cibo sia preso con le mani, scontrato con una manica, appoggiato dove non si dovrebbe?

Diciamo che sarebbe buona norma che una visita alle cucine fosse concessa solo ai clienti ormai affezionati, legati a filo doppio al ristoratore da sentimenti di stima e di amicizia, in modo da far si che ogni piccolo dettaglio fuori posto o ogni piccola crepa nell'integrità igienica della cucina fosse vista con occhio bonario.
Magari con un piccolo preavviso per darsi una rassettata...

I figli allora sono come il cliente di un ristorante.  Le prime volte badano a tutto quello che vedono, sentono, provano. Si formano il gusto di giovani buongustai, seguendo le indicazioni dello chef, esplorando tutte le proposte che la carta offre loro. La varietà delle proposte che riceveranno e l'ascolto ai loro gusti che sentiranno di ottenere dal ristoratore, sarà quello che farà venir loro voglia di continuara a frequentare quel posto e sarà quello che costruirà, piano piano, un termine di paragone, uno standard col quale confronteranno tutto quello che incontreranno in futuro.
Sarebbe inutile e fuorviante far loro visitare le cucine, prima di aver capito quello che quelle cucine hanno saputo produrre, prima di capire che - nel tempo - da quelle cucine, da quegli chef, sono arrivate continuamente ed instancabilmente proposte, risposte, ascolto, occasioni di confronto, di critica, di crescita.

Arriva poi il giorno della curiosità, delle visita alle cucine, del disincanto, della scoperta del fatto che - per fare una pietanza apparentemente semplice e ordinatamente disposta al centro di un piatto pulito - c'è bisogno di tavoli sporchi, coltelli affilati, fumo, vapore, pentole che bollono, padelle che friggono, odori, sudore, mani, stracci che puliscono, parole, liti, discussioni, imprecazioni.

Quel giorno crolla il velo, oppure no. Quel giorno si diventa tutti grandi.
Diventano grandi i figli che hanno la possibilità di capire la fatica che occorre per fare da mangiare tutti i giorni e che la fatica a volte ha cattivi odori, ha pessimi rumori e fa fare brutti errori, ma il piatto quando esce dalla cucina è (quasi) sempre impeccabile. Accidenti! Che miracolo!.
Diventano grandi i genitori che, anche se hanno qualche piccolo topo morto in un angolo, si rendono conto che forse tutto quel pandemonio di cucina che temevano di far visitare, non era poi così male e che il fatto di essere riusciti a far uscire piatti (quasi) sempre impeccabili ha prodotto clienti legati a filo doppio al ristorante.
Per fortuna! Che fatica! 

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Punti di vista

Pronto buongiorno.
Buongiorno mi dica.
Senta, mi chiamo V., volevo chiedere se posso rivolgermi a lei perchè io e mia moglie abbiamo dei gravissimi problemi di coppia. 
Si, certo. Qual è la vostra situazione?
Siamo sposati ed abbiamo 2 figli e lei sta cominciando a parlare di separazione. 
Lei vorrebbe incontrarmi da solo o con sua moglie?
Saremmo interessati a venire insieme, quando può darci un appuntamento?
Ok mi faccia chiamare da sua moglie. In quell'occasione parleremo di un eventuale appuntamento.
Va bene, a presto.

Pronto buongiorno.
Buongiorno, mi dica.
Sono T. la moglie di V. volevo sapere se possiamo avere l'appuntamento che Le ha chiesto mio marito perchè come Le avrà detto abbiamo molti problemi e lui pensa di risolverli separandoci
Ah capisco ..... vi va bene Venerdì alle 17?

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Parole di padre

ci sono giorni di padre in cui ho parole di ferro che ho la sensazione forgino la materia tenera e grezza che ho la responsabilità di modellare, ci sono giorni di padre in cui ho parole di pietra che freno e non scaglio contro la materia tenera e grezza che ho la responsabilità di non rompere, ci sono giorni di padre in cui ho parole di plastica contro le quali sembra scivolare via la materia grezza che ho la responsabilità di forgiare.

ci sono giorni di padre, poi,  in cui mi viene il dubbio che non siano le parole o la loro forma o la loro consistenza a modellare, salvaguardare o forgiare i miei figli ma lo sia invece il mondo, l'universo che le mie parole, i miei gesti, i miei sgaurdi, i miei baci, i miei silenzi e i miei sbagli hanno contribuito a costruire davanti  ai loro occhi.

samuele (11) mi ha appena comunicato con serena determinazione che lascerà la sua blasonata squadra di calcio, nella quale si stava ritagliando il suo spazio, per andare a giocare col suo amico del cuore che è stato scartato ed è approdato in una squadra con minori pretese agonistiche.
alessandro (8) mi ha appena comunicato che lascerà la sua squadra di calcio (la stessa del fratello) per seguire il maestro di Karate che al 3° Daddy Camp gli ha fatto conoscere le emozioni, le meraviglie e il rigore delle arte marziali.

non so che futuro abbiano queste due decisioni di due piccoli uomini, ma sono senz'altro felice che samuele scopra, nell'ordine delle sue priorità, l'amicizia e la serenità in posizione più rilevante rispetto alla passione agonistica per il calcio (che credevo cieca e furiosa) e sono felicissimo che abbia funzionato con Alessandro l'idea (che sta alla base del Daddy Camp) di far conoscere ai nostri bambini nuove discipline e nuovi sport sotto forma di gioco e di giornata di svago, sfruttando così la loro libertà nello scegliere sull'onda dell'entusiasmo e non sotto la spinta interessata o impositiva dei genitori.

e poi mi illudo che, forse, le parole di padre, che siano di ferro, pietra o plastica alla fine abbiano fatto il loro sporco lavoro.
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un sorso di felicità

è ingiusto che a una persona normale, equilibrata, diciamo normo dotata, non sia concesso di esultare. ti nasce un figlio? non puoi fare una corsa per i corridoi dell'ospedale urlando, sembreresti pazzo. chiudi un grosso affare? non puoi saltare sulla scrivania o correre ad abbracciare un tuo collega, saresti considerato uno squilibrato. ti arriva la telefonata che aspettavi da tanto, che ti rimette al mondo dopo anni di fatica, di sacrifici ed attese? non puoi aprire la finestra e urlare a squarciagola a tutti i passanti "Ehi senta, lei, mi ascolta? ce l'ho fattaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa", ti troveresti dopo poco additato come un poverò demente. la nostra cultura prevede l'à-plomb. la felicità, quando arriva, bisogna far finta di niente, come quando si tira su il quarto asso a poker, o quando la prof scorreva lo sguardo fra i banchi per un'interrogazione a sorpresa e sceglieva il nostro vicino o quando la bottiglia si fermava puntando la nostra preferita ed era il nostro turno. dopo 46 anni di duro lavoro per adattarmi a questo, ormai sono bravissimo anch'io e in un certo senso ne apprezzo anche i vantaggi, perchè a comportarsi così la felicità diventa una medicina a lento rilascio. lei arriva di botto, tu te la metti sotto la lingua facendo finta di nulla e lei fa effetto piano piano. organizzare il 3° Daddy Camp è stato un lavoro lungo fatto di idee, pensieri, sogni, progetti, organizzazioni, contatti, aiuti, informazioni, azzardi. alla fine tanta gente, tanti sorrisi, tutto filato liscio, il sole come reglao della fortuna e la sensazione di qualcosa che cresce e può diventare ancora più grande. e poi questo sorso di felicità, nascosto sotto la lingua, che da domenica sera mi pervade lentamente e mi quieta l'anima, almeno per un po'. .. .. .. ..

a testa bassa verso la meta



La sera, resto davanti al pc. Finalmente al silenzio, finalmente solo, finalmente con la mia musica, finalmente con i miei pensieri a ripensare a tutte le meraviglie che mi sono passate davanti.
Le corse e le risate del piccino che ha scoperto che correre come un cavallo fa ridere, la voce di Alino che mi accoglie con un "arrivare in orario no eh!!" ma sa benissimo che farsi la doccia da solo e aspettare fuori dallo spogliatoio da bravo, lo fa sembrare fighissimo tra i suoi compagni di calcio e lo fa sentire un grande che le cose se le sa fare da solo, il broncio di Samu che è ancora cucciolo e le sue fragole le voleva, ma è abbastanza grande da non volere che la mamma gli regali le sue perchè io mi sono sbagliato a fare le porzioni.
Oggi è stata una giornata meravigliosa.
Oggi è una giornata che va ricordata per queste tre perle meravigliose, che sono rimaste sepolte nel rumore della giornata, nel disordine della fretta, nella frenesia della stanchezza che ci fa correre a testa bassa fino al pigiamino-dentilavati-spegnerelaluce come verso la meta più preziosa.
Poi si rallenta, si respira, si lascia che la musica ci accarezzi un po' e che ritorni a galla quello che abbiamo messo da parte perchè dovevamo correre verso la meta.
Ed ecco che rivedo il piccolo che fa il cavallo e ride, ecco Alino che bontola ma è fiero, ecco Samu che fa i capricci ma è maledettamente grande.
Ecco la ragione della mia giornata e - forse - anche un po' della mia vita.

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Ci sono percorsi che nascono per gioco, con l'innocenza e la leggerezza dei sogni e la caparbietà e la tenacia dei desideri.
Si passeggia, si cammina, si corre, si scala, ci si inciampa, si rincorre, si supera, si svolta, si sbaglia strada. Ecco che d'improvviso ci si ritrova guerrieri, corridori, scalatori ingrugniti.
E la leggerezza dell'inizio? l'innocenza? il gioco? i sorrisi?
E' ancora tutto là, basta voltare lo sguardo e riguardarsi, basta ascoltare una canzone meravigliosa, riaprire il blog e ricominciare a scrivere.