favola

questa storia cominciò un giorno - un martedì grasso - quando un ragazzino scoprì che da quel giorno - e non era uno scherzo di carnevale - non avrebbe più visto i suoi genitori darsi un bacio, dormire insieme, svegliarsi insieme, partire insieme, abbracciarsi.
passarono giorni, mesi, anni, di racconti ascoltati la sera sdraiato con papà sul suo letto vuoto per cercare di capire come mai fosse crollato il mondo, il loro mondo, il suo mondo e passarono giorni, mesi ed anni di racconti ascoltati di giorno, seduto con la mamma su un brutto divano per cercare di capire come mai fosse crollato il mondo, il loro mondo, il suo mondo.
ma cosa c'è al mondo di così forte - si chiedeva il ragazzino - che ha potuto far crollare ciò che lui vedeva come un infinito amore fatto di carezze, attenzioni, sorrisi e baci?
che cosa mancava al mondo - si intestardiva a domandarsi - per non permettere che un'unione profonda come quella della ruggine ed il ferro potesse continuare inesorabile?


passarono gli anni. i cuori smisero di lacrimare, le parole ricucirono, le mani si ritrovarono.
papà e mamma trovarono un altro posto per il loro cuore ed il ragazzo imparò a guardare baci, risvegli, partenze ed abbracci di un'altra vita.

anni dopo ancora, tornò su quel letto a parlare del suo mondo di uomo che crollava e pianse su quel divano per i sogni di marito e di uomo che gli sfuggivano di mano e quando sfinito si addormentò,  sognò. sognò un racconto - sussurrato a suoi orecchi come una frase d'amore - che parlava di mamma e papà che in segreto avevano continuato ad amarsi, vedersi, stringersi e baciarsi, sconfitti nel loro intento di voler estirpare la ruggine dal ferro.

l'uomo si rasserenò.
scrisse due biglietti identici.
ne lasciò uno sul letto e uno sul divano e continuò a vivere.

sui biglietti c'era scritto così:

Ruggine e ferro
eravate e siete
ed io
che vedevo e so
sorrido
perchè di ruggine e ferro
vivo

CIAO ....


Da quando ho i bimbi mi sono accorto che - con loro - non riesco più a salutare in maniera semplice. Non esiste più il "ciao" puro e semplice. Devo sempre aggiungere qualcosa, una postilla, un commento, un corollario, un consiglio, una raccomandazione, un vezzeggiativo, un imperativo, un'affettuosità.
"Ciao amore, ricordati di ..." "Ciao tesoro, mi raccomando ...", "Ciao cucciolo, divertiti, fai il bravo, copriti, non prendere freddo, dai un'occhiata a tuo fratello, occhio ad attraversare .....".
Quello che è peggio - poi - è che malgrado questa aggiuntina, il saluto mi sembra sempre insufficiente. Avrei voluto raccomandarmi un po' di più, verificare meglio se aveva capito, essere più rassicurante, più affettivo, meno mieloso, più fiducioso, ...... insomma più tutto e meno tutto.
Ogni saluto, ogni piccolo o grande distacco, mi fa sentire come quando si consegnava un compito in classe e - tant'è - una sbirciatina, una rilettura la si dava ancora, così per sicurezza, oppure come quando ancora oggi si scrive una mail importante ed il cursore è già sul pulsante invia, ma prima di cliccare si aspetta un attimo, si riguarda tutto per controllare che no ci siano errori.

Poi, consegnato il compito in classe, inviata la mail, salutato il figlio che va via da solo, cominciano i piccoli rosicchi d'ansia.
Saprà cavarsela da solo? saprà sopportare le sconfitte senza abbattersi, riconoscere i pericoli senza esserci già dentro, gioire delle fortune senza essere arrogante, difendersi dalle prepotenze senza esserne vinto?
Saprà già vivere questo cucciolo di uomo che guardo attraversare la strada sulle strisce davanti alla scuola, come se guardarlo lo potesse proteggere per l'ultimo minuto prima che incontri la vita? Avrà già capito abbastanza dai nostri insegnamenti per potersi destreggiare tra le fila di tutti questi personaggi di cui la sua vita si sta popolando? Sarà già capace di aggiungere insegnamenti nuovi a quelli che tenacemente abbiamo cercato di dargli come patrimonio di esperienza? Sarò capace - questa sera - a spiegargli il significato di tutte le cose nuove che gli saranno capitate, sarò capace di valorizzare quelle giuste e allontanare dalla sua testa quelle sbagliate? Sarò capace di riconoscerle, quelle giuste e quelle sbagliate?

"Ciao amore, buonagiornata, ci vediamo stasera". (ecco vedete ...)

Bernardo dice (1)

(...) La tua ferma volontà di mettere i tuoi passi laddove gli altri non riescono nemmeno a mettere il pensiero, fa di te - amico mio - l'uomo che sogna. (...)

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Sport violento o violenza nello sport?


Oggi sugli spalti del secondo allenamento di Rugby di mio figlio (8) mi chiedevo: "Cosa vuol dire uno sport violento?.

Nessuno vuole uno sport violento per il proprio figlio. Si può temere che si faccia male, oppure si può temere che qualcuno gli faccia male, oppure che veda, impari ed interiorizzi atteggiamenti violenti o, ancora, che qualcuno sia violento con lui, non soltanto fisicamente.

Allora, nell'ozio degli spalti, mi sono venute in mente tre immagini:
la prima quella vista praticamente l'istante precedente quando un bimbo, ben piazzato, ha atterrato mio figlio catapultandosi con la sua spalla fra le sue gambe facendolo cadere rovinosamente (ma con la palla ovale stretta fra le braccia);
la seconda quella di domenica scorsa quando ho assistito ad una partita di bimbi del 2003 e ho dovuto subire il supplizio di un mister invasato che ha ragliato per tutta la partita, vomitando urli, insulti, lamentele, critiche ai bambini, critiche all'arbitro e altre bassezze, fino a che - per fortuna - la sua squadra ha vinto. Dopodiché ha salutato tutti cordialmente a fine partita, con un sorriso di scherno come dire: "sapete ... era la partita, ma ora che abbiamo vinto ... mi è passata";
la terza quella di un paio di settimane fa quando il papà di un compagno del mio grande (11) ha blandamente, velatamente, insistentemente, educatamente- ma definitivamente - convinto suo figlio a giocare nella squadretta quotata dove era iscritto da due anni malgrado la richiesta del piccolo di andarsene visto che il nuovo mister e l'ambiente non gli piacevano più.


Finita la carrellata, il primo pensiero è stato che la violenza molto spesso non è nel gesto atletico, anche se tremendamente di impatto. Penso infatti di poter dire che in molti contrasti del calcio, in molti contatti del rugby, addirittura nei colpi della boxe (l'elenco di esempi potrebbe essere infinito) non c'è violenza. Intendo dire che l'idea che sta dietro a quei gesti non ha finalità violente o, cosa ancor più importante, non sono gesti che l'atleta fa per sfogare un suo istinto violento (quando succede il gioco si ferma e c'è la sanzione).

Penso invece che sia più facile trovare la violenza nella cultura che uno sport propone e propugna. Se in uno sport il dio è la vittoria con qualsiasi mezzo, allora ci saranno sempre mister che abbaiano in panchina, genitori che si azzuffano sugli spalti e bambini stressati che piangono quando perdono e non si divertono.
Dietro agli urli di un mister invasato o nelle parole striscianti di un padre manipolatore c'è - sotteso e palpabile - un messaggio violento.
Nel mister che abbaia, violenza nei confronti dell'amor proprio dei bambini che spesso per compiacerlo, piacergli ed accontentarlo vanno alla ricerca dei peggiori istinti che riescono a trovare dentro loro stessi o attingendo ai peggiori esempi reperiti nell'ampio mercato televisivo e sportivo. Ci vuole poco perchè si insinui in un ragazzino il concetto per cui: "Se mi butto in area e mi danno un rigore magari vinciamo, se do una calcione al più bravo degli altri magari lo intimorisco e gioca peggio, se meno gli avversari la prossima partita l'allenatore mi fa giocare perchè sono un duro".
Nel padre strisciante, la violenza sta nel non voler dare ascolto a precise e argomentate richieste di un figlio il quale per compiacerlo, piacergli ed accontentarlo mette in cantina le sue priorità e sensibilità, costretto a vivere la vita che quel papà ha ipotizzato per lui senza verificare l'esattezza della scelta. Ecco allora affiorare nel bimbo pensieri come:"Se lascio questa squadra ti deludo, se resto in questo club non ti arrabbi che so che ci tieni tanto, forse quello che desidero io è sbagliato".

Quindi mi sembra di poter concludere che - forse - non è corretto di parlare di sport violenti, ma di violenza nello sport  e - guarda caso - la violenza è sempre accompagnata da ignoranza e impreparazione.

Purtroppo sulle panchine del calcio giovanile spesso permettiamo che siedano persone che non hanno la minima preparazione e la minima cultura pedagogica.
Malgrado questo, anche quelle scuole calcio hanno la fila di genitori (miopi e impreparati anche loro) che vogliono iscrivere i loro bambini.

Bene, finiti questi bei pensieri, adesso devo trovare una bella spiegazione plausibile da raccontare a mia moglie, visto che mio figlio ha finito l'allenamento con un bel livido sulla coscia destra. Però è felice.
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Per il Rugby ci vuole il fisico


Coronando il sogno della mia vita di genitore di tre maschi (11,8,2) l'altro giorno ho varcato la porta della Decathlon e ho pronunciato la seguente frase: "Scusi, la roba da rugby per bambini dov'è?".
Io non so quante volte ero passato davanti a quegli scaffali provando un profondo senso di invidia. Invidia in tutti i sensi: intanto perchè la roba da rugby è infinitamente più bella di quella da calcio, poi perchè vedendo certe divise elasticizzate e rinforzate ho sempre pensato che per potersele mettere senza sembrare dei camionisti a fine carriera, bisognasse avere un fisico bestiale, e i rugbysti hanno un fisico bestiale, ma soprattutto perchè il rugby è sempre stato il mio sogno in termini di educazione sportiva, di valori trasmessi ai ragazzi, di eccellenza in tutta la filosofia che l'intero movimento propone e sostiene.
Ora che mio figlio Alessandro (8), dopo una semplice lezione di prova, ha sentenziato che vuole iscriversi al CUS Genova Rugby, non me la voglio perdere l'occasione di entrare in questo mondo e quindi tutti i mezzucci da padre rinforzante sono scattati.
"Amore, non ti servirà mica un caschetto e un paradenti per la prossima lezione? Facciamo mica un salto da DECATHLONNNNNNNNNNNNNNNNNNNN?" (parola magica da enfatizzare sempre).
"Si papiiiiiiiiiiiii, e mi servono anche le scarpe, le calze e anche una maglietta".
"No, calma, le scarpe sono quelle da calcio e la roba per ora va bene quella che hai, comunque andiamo".

L'inserviente è gentile, anzi gentilissimo e io - ormai intrippato - penso già che sia merito del rugby, che il rugbysta è educato quindi ben voluto, il calciatore invece è maleducato quindi gli avrebbero risposto "guardi un po' là, si scelga la roba da solo".
Lui invece ci accompagna, poi prende un caschetto della misura giusta, lo spacchetta, lo prova ad Ale, il quale - come se fosse stato toccato dalla corona magica - comincia a dimenarsi facendo smorfie da mischia e simulando la carica.
"Per i paradenti invece abbiamo questi, si mettono in acqua calda e poi si mordono, lo vuole rosso o nero?"
Io faccio in tempo a girarmi per porre la domanda a mio figlio, quand'ecco che un autotreno da 440 qli, o forse una ruspa, ma no ... forse il Freccia Rossa lanciato a tutta velocità mi ha travolto colpendomi fortissimo alla bocca dello stomaco. Dell'urto ricordo solo l'immagine del caschetto calzato dal solerte inserviente a quel cinghiale neozelandese di mio figlio, che mi veniva incontro all'altezza della pancia. Ricordo anche di aver implorato invano ai miei addominali di contrarsi e di aver avuto la risposta che si ha quando si richiama una ex fidanzata dopo un anno e mezzo che non ci si fa vivi:  no secco.

Per il colpo ricevuto sono sbiancato e - forse per compensazione o forse perchè pensavo agli All Blacks - con un filo di voce ho detto all'inserviente. "Me lo dia neroooooooooooo".

Ecco, io sono felicissimo che mio figlio si stia innamorando del Rugby, ma ho la netta sensazione di non avere il fisico.

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Il ristorante del velo


A volte penso che fare il genitore sia come fare il cuoco.
Il piatto che porti in tavola deve essere perfetto, gradevole alla vista, azzeccato nel gusto, bilanciato negli accostamenti, giusto di sale. E poi il ristorante deve essere in ordine, accogliente, con una bella atmosfera, una bella luce, pulito, comodo e non troppo caro. Tutti sanno, soprattutto il cuoco, che malgrado le mille attenzioni, è sempre meglio che il cliente non varchi la soglia della cucina. Non perchè si corra il rischio di vedere chissà chè. Non è che nella sua cucina ci sono i topi o c'è una sporcizia tale da fare inorridire un eventuale visitarore! E' piuttosto che, tutto quel rigore e quell'ordine - che un piatto ben servito trasmette - non proviene necessariamente da una cucina perfetta, sterilizzata, impeccabile e linda. Vuoi che non ci sia roba a mezzo? vuoi che non cada qualcosa? vuoi che non scappi un dito nel naso, una goccia di sudore, un mestolo che tocca prima qui e poi là? o qualche cibo sia preso con le mani, scontrato con una manica, appoggiato dove non si dovrebbe?

Diciamo che sarebbe buona norma che una visita alle cucine fosse concessa solo ai clienti ormai affezionati, legati a filo doppio al ristoratore da sentimenti di stima e di amicizia, in modo da far si che ogni piccolo dettaglio fuori posto o ogni piccola crepa nell'integrità igienica della cucina fosse vista con occhio bonario.
Magari con un piccolo preavviso per darsi una rassettata...

I figli allora sono come il cliente di un ristorante.  Le prime volte badano a tutto quello che vedono, sentono, provano. Si formano il gusto di giovani buongustai, seguendo le indicazioni dello chef, esplorando tutte le proposte che la carta offre loro. La varietà delle proposte che riceveranno e l'ascolto ai loro gusti che sentiranno di ottenere dal ristoratore, sarà quello che farà venir loro voglia di continuara a frequentare quel posto e sarà quello che costruirà, piano piano, un termine di paragone, uno standard col quale confronteranno tutto quello che incontreranno in futuro.
Sarebbe inutile e fuorviante far loro visitare le cucine, prima di aver capito quello che quelle cucine hanno saputo produrre, prima di capire che - nel tempo - da quelle cucine, da quegli chef, sono arrivate continuamente ed instancabilmente proposte, risposte, ascolto, occasioni di confronto, di critica, di crescita.

Arriva poi il giorno della curiosità, delle visita alle cucine, del disincanto, della scoperta del fatto che - per fare una pietanza apparentemente semplice e ordinatamente disposta al centro di un piatto pulito - c'è bisogno di tavoli sporchi, coltelli affilati, fumo, vapore, pentole che bollono, padelle che friggono, odori, sudore, mani, stracci che puliscono, parole, liti, discussioni, imprecazioni.

Quel giorno crolla il velo, oppure no. Quel giorno si diventa tutti grandi.
Diventano grandi i figli che hanno la possibilità di capire la fatica che occorre per fare da mangiare tutti i giorni e che la fatica a volte ha cattivi odori, ha pessimi rumori e fa fare brutti errori, ma il piatto quando esce dalla cucina è (quasi) sempre impeccabile. Accidenti! Che miracolo!.
Diventano grandi i genitori che, anche se hanno qualche piccolo topo morto in un angolo, si rendono conto che forse tutto quel pandemonio di cucina che temevano di far visitare, non era poi così male e che il fatto di essere riusciti a far uscire piatti (quasi) sempre impeccabili ha prodotto clienti legati a filo doppio al ristorante.
Per fortuna! Che fatica! 

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